Tamba, l’ultimo grande Re

Wattpad
Download

Località: Vicenza IT
Anno: periodo buio

Avevo passato gli ultimi cinque anni a “mantenerlo”, o così mi piaceva pensare, nella grande magnanimità di possessore di una semplice rivendita di generi alimentari; una cosa a cui fino a poco tempo fa davo ancora un valore, ma che dal giorno stesso del cambiamento lo aveva perso del tutto. Avrei fatto ancora fatica ad accettarlo, ma poi mi resi conto che si trattava semplicemente di un punto di vista, nient’altro che quello. Ora è facile pensarlo, poiché è una concreta realtà da cui non ci si può ritrarre; nessuno possiede di fatto qualcosa in termini nominali, ma ripensandoci, anche prima che la miriade di droni distruggesse i centri nevralgici su cui si ergeva il vecchio sistema, cancellando in un attimo tutte le conquiste raggiunte in centinaia di anni dall’ultima civiltà, anche allora il possesso si limitava ad essere niente più che un semplice punto di vista.
Al tempo non sarei mai riuscito a capirlo, non ne veniva data la possibilità; vivere al di fuori del sistema era pressoché impossibile, o forse solo inaccettabile, anche nei confronti di se stessi. Saresti stato spogliato di qualsiasi valenza umana e additato come un perdente, un parassita, un disadattato, un poco di buono inadatto alla costituzione di una famiglia, se non alla vita stessa. Eppure se qualcuno me lo chiedesse adesso non sarei disposto a tornare a vivere come un tempo, anzi l’idea stessa mi toglie completamente l’aria, al contrario di quel giorno, quando udii esplodere uno dopo l’altro gli edifici della caserma Federale, situata a poche centinaia di metri da casa mia: una delle postazioni di comando principali, come venni a sapere solo giorni dopo, mentre ero all’apice di quel senso di euforia crescente, confuso all’inizio come una forma incontrollata di paura, che si rivelò essere un’inedita sensazione di libertà, come mai avevo provato prima.

Vagai, confuso, come tanti altri, con gli apparecchi privi di linea, impossibilitato a chiamare chiunque, ed allora mi rinchiusi in casa ad aspettare invano l’erogazione di energia che mi avrebbe riconnesso al mondo, per capire cosa stesse accadendo, per sapere cosa mi avrebbe riservato il futuro; una risposta che ancora oggi non ci è stata data e che nemmeno ci interessa più avere.
Vagai in cerca di provviste, dopo aver esaurito le mie, appurato che nemmeno l’identificazione personale per il prelievo funzionava, un sistema che in teoria era provvisto di un’erogazione multipla di energia, raramente fuori servizio, dato che il 90% delle transazioni avveniva così, ma che non si riattivò mai più. Fui costretto all’appropriazione indebita, e divenni un efficiente topo da supermercato, provando un gran senso di colpa, anche se non so ancora nei confronti di chi, dato che erano tutti deserti, forse dovuta più al fatto che anche la mia attività nel breve periodo era stata saccheggiata, lasciandomi un bisogno di rivalsa sui colpevoli che si rigirò su di me quando colpevole lo divenni anch’io.
Vagai, infine affamato, non so per quanto tempo, forse solo per una notte, ma infinita, dato che il sole si ostinava a non sorgere più, tanto da farmi pensare che i vecchi ed ormai obsoleti misura-tempo, prima così precisi da regolare i singoli passi di ogni persona, non funzionassero più correttamente. Un concetto inverso al pensiero che avevo fatto inizialmente, lo devo ammettere, perché in quei momenti, anche se mi vergogno a dirlo, veniva naturale pensare che fosse la Terra a non funzionare più; un po’ come quando si incolpavano le stagioni di non essere puntuali con il calendario… E’ difficile mettere in discussione il sistema a cui si è stati abituati a dipendere da sempre, è un po’ come mettere in discussione la tua intera vita, e quando questo successe, semplicemente quel sistema venne dimenticato da tutti, parallelamente al passato che rappresentava, forse anche nel desiderio di rinnegarlo.
Vagai, nel lieve barlume di quella consapevolezza, più in preda ad un lucido incubo, barcollando come un neonato mentre muove i suoi primi passi da eretto, destreggiandomi nel capire le regole di quella nuova realtà, finché non lo rincontrai:
“Mangia”, disse gettando a terra un grappolo d’uva che non brillava certo per freschezza, ma in quei colori sgargianti, che un tempo sarebbero stati un chiaro indice di putrescenza, gustai mille sapori e provai il piacere del chetarsi della morsa della fame, divenuta la nuova ed immancabile costante della vita. Non disse nient’altro, com’era suo solito fare. Mi sorrise: denti bianchi in un volto nero pece, chiamato in passato ad essere l’ultimo degli emarginati, extracomunitario fra gli immigrati, che non chiedeva mai più di quello che gli occorreva per la propria sopravvivenza giornaliera. Lo ricordo ancora adesso ed a stento riesco a comprenderlo, ma era solito rifiutare denaro ed oggetti di ogni sorta se non ne vedeva l’immediata utilità, vanificando i gesti di misericordia dei benestanti che occupavano un tempo singoli spazi di quello che a tutti gli effetti era divenuto, o forse era sempre stato, il suo territorio, quello che ora era considerato da tutti il suo regno.
Punti di vista, che diedero vita a veri e propri universi coesistenti, che presero forma semplicemente dalle diverse valutazioni di una stessa cosa, e mantenuti separati sovrapponendoli l’uno sull’altro, pur avendo gli stessi confini, ma che il giorno del disastro dovettero ridefinirsi e scontrarsi fino a fondersi in un’unica realtà, poiché c’era spazio per una sola di esse. Ora non si può più sognare e fare progetti a lunga decorrenza, se mai prima ci fosse stata la concreta possibilità di portarli a compimento; il passato scompare un attimo dopo averlo vissuto e la semplice consapevolezza di poter sopravvivere anche il giorno successivo alleggerisce l’animo, e questo ci basta. Quello era sempre stato l’universo di Tamba, e la vittoria sulle altre realtà decretò lui, devo dire in maniera del tutto inaspettata, come l’unico possibile Re della nuova civiltà che si apprestava a sorgere. Se rifletto in questi termini vedo in tutto ciò nulla più che la naturale conseguenza di continuità del suo essere, nitido riflesso in un contesto dove tutti noi apparivamo poco più che una macchia sbiadita. Qui lui ci era cresciuto e vissuto fino a fondersi e renderla la sua realtà, anche se sono sicuro nemmeno per lui fosse sempre stato così, ma il passato, quello sì, per lui non era mai stato motivo di contemplazione. Si narravano le storie più disparate sul suo conto, fin da prima del giorno del disastro, dopo si erano solo moltiplicate, e soprattutto ingigantite, fino a diventare veri e propri miti. Lo si raccontava, nella maniera più semplice, fuggitivo da un campo di raccolta di ortaggi delle coltivazioni del sud, tenuto in uno stato pressoché di schiavitù, che nelle versioni più articolate diventava capo di una rivolta sanguinaria. Una vicenda mai approdata nei telegiornali nemmeno locali e per questo, ma solo ultimamente, messa in dubbio da alcuni, mentre si dava sempre più credito ad una versione straziante del suo passato, dove si narrava avesse attraversato il mare tenendo abbracciato per giorni il corpo esanime di un suo compagno di avventura, tragicamente venuto a mancare durante il tragitto, ma trascinato a riva dal fedele Tamba che in punto di morte gli aveva promesso di dargli degna sepoltura. In vita mia non ho mai sentito nessuno promettere una cosa del genere, se non in una di quelle recite strappalacrime che tanto andavano di moda un tempo. Non si fa, e basta, anche di fronte all’evidenza più tragica, ma devo dire la verità, sono il primo ad interessarmi quando sento circolare qualche nuova versione di quelle storie, mi piace ascoltarle, anche se so essere inventate o semplicemente storpiate rispetto le precedenti, e se non sento per un po’ nulla a proposito sono io stesso a chiedere informazioni alle persone più indicate, venendo raramente deluso. Forse non è sbagliato dire che siamo tutti coinvolti nella creazione dei miti, perché mi sto rendendo conto di essere complice anch’io di tutto questo…
In realtà nemmeno si sapeva da dove venisse, qualcuno aveva provato ad intuirlo dall’accento fortemente nasale e dai suoi lineamenti tipici dell’Africa più profonda, ma a parte quello nessuno sapeva com’era giunto nel vecchio continente, se mai si fosse imbarcato per la traversata, aggiungo io, e cosa avesse fatto per sopravvivere. Se qualcuno glielo chiedeva semplicemente non otteneva alcuna risposta, veniva scrutato in silenzio per qualche secondo o ignorato del tutto; sapevamo però che la nostra sopravvivenza ora dipendeva da lui e non c’era nessuno che metteva in discussione questo, tanto meno la sua leadership. Non più almeno, da quando avevamo assistito allo scontro tra lui e Miky, un tizio affabile e di buona compagnia per la verità, ma che si era sempre vantato di essere un esperto delle più raffinate tecniche di sopravvivenza, e che dallo stesso giorno in cui si era unito a noi con il suo piccolo gruppo, aveva avuto l’intenzione di spodestare Tamba e prendere la sua posizione.
“Spegni”, gli aveva detto Tamba, intimandolo ad eseguire il suo ordine e soffocare il piccolo falò che l’uomo aveva acceso durante una fredda notte di turno di guardia sulla cima della collina della Grande Antenna, come l’avevamo ribattezzata noi per comodità, dato che non tutti erano originari della zona, o come altri sostengono nell’intento, devo dire ben riuscito, di dimenticare i nomi dati da un’istituzione che non esisteva più, i cui significati erano ormai sepolti sotto le sue macerie. Miky si era messo a ridere copiosamente, asserendo che anche se qualcuno avesse visto la luce non poteva che dimostrarsi amico, se non voleva cadere sua vittima.
“Spegni”, gli aveva detto ancora, prelevando dal falò una frasca in fiamme. L’uomo si fece cupo e lo denigrò, mettendo in discussione il suo ordine “Ma guarda te questo”, commentò sogghignando verso di noi, componenti della squadra di ricognizione allertata da quella luce, mentre un fendente di Tamba lo colpiva allo sterno, conficcandogli la punta del bastone fiammeggiante in mezzo al petto. L’uomo si riversò a terra dopo essere rimasto a guardare basito la fiaccola che si estendeva dal suo corpo, come ammaliato dalla luce fluttuante dinanzi a lui, che perse per un momento la sua vivacità, ma solo durante la caduta, per riprendere poi lentamente corpo, sempre saldamente ancorata all’uomo, ergendosi ritta ed inviolata come la candelina dispettosa di una torta di compleanno che non ha nessuna intenzione di spegnersi.
Raggelammo tutti all’efferatezza del suo gesto, sicuri di aver appena assistito ad un omicidio che a dire la verità ora lo definirei unicamente con l’aggettivo di grottesco, e se ci ripenso ancora oggi mi viene da ridere per il modo in cui Tamba aveva riaffermato la sua autorità, ma quello era lui: nessuno stile ben preciso, nemmeno in battaglia, solo l’istinto, mente libera, sempre, per individuare quello che si ha a disposizione e riuscire ad utilizzarlo nello stesso momento in cui se ne sente l’esigenza. Nessuno era intervenuto, eravamo rimasti a guardare il fuoco della torcia danzare in onore di Tamba, come l’emblema di una bandiera esposta al vento, il suo emblema, come nessun altro simbolo avrebbe potuto rappresentarlo. Sono sicuro che altri come me non approvarono quel gesto, nonostante le lodi che si udirono circolare per intere settimane fra le fila di quella che a me piace chiamare la nostra tribù. Io nel frattempo davo aria alla mia disapprovazione, riprendendo tutti quelli che sentivo elogiarlo nell’ambito di quell’episodio, all’inizio in maniera alquanto contenuta devo ammettere, forse perché non mi riguardava direttamente, o per paura di subire il medesimo trattamento, e cosa più importante, perché quell’uomo non era veramente morto. Fra lo stupore di tutti infatti si era rialzato, e dopo essersi strappato via dal petto la rama ormai consumata, trattenendosi il più possibile da ogni smorfia o lamento di dolore, spense il fuoco che aveva dato vita a quella diatriba, terminando il suo turno di guardia come se niente fosse accaduto, guadagnandosi il soprannome de “il Diavolo”. Dopo pochi giorni se ne andò, senza che il Re si opponesse, portando via la sua gente e quelli che vollero seguirlo, gli stessi che ora ci troviamo ad affrontare. Quello che importava a me però era il principio di libertà che con quell’atto sentivo essersi andato nuovamente a ledere, e in quell’ottica avevo continuato la mia contrapposizione, finché non mi resi conto che tutti erano a conoscenza del mio pensiero, ed allora ebbi paura. Cominciai ad evitarlo, che stupido ero stato, solo a Tamba spettavano certe scelte, io mi trovavo bene a vivere alla giornata, ed eseguire, ma lo capii meglio quando lo incrociai per errore la prima volta. Sudai freddo, lui rimase a scrutarmi in silenzio, proseguì dritto, ma sentendosi osservato si rigirò, e quando i nostri sguardi si incrociarono nuovamente provai un mancamento “Che guardi?”, mi chiese con voce gutturale, andandosene subito dopo, senza mai entrare nel merito del discorso. Avevo travisato la sua posizione, avevo messo in dubbio la sua idea di libertà, confondendola con l’anarchia, ma se si vuole sopravvivere, e questo glielo concedo, non vi doveva essere spazio per l’insubordinazione.

La violenza era diventata per me un’espressione che apparteneva al passato, sepolta assieme ad una vita che ricordavo a stento e neppure tanto volentieri. Mi era accaduto qualche tempo dopo essere stato introdotto nella tribù, avevamo l’ordine di setacciare le case abbandonate per raccattare qualsiasi cosa fosse stata utile alla comunità, quando notai quella bozza nella porta in legno. Solo allora realizzai di essere a casa della mia ex moglie, quella che due vite prima era stata anche la mia casa. Rimasi davanti a quella porta per quasi tutto il tempo, mentre i miei compagni rovistavano in ogni stanza, ed io fermo a contemplare lo stampo del mio pugno dato in un momento di rabbia incontenibile che sancì concretamente la fine della mia prima ed ultima esperienza coniugale, perlomeno nel senso classico del termine. Non capivo più cosa rappresentasse per me quel negativo impresso nel legno, lo riconoscevo in ogni sua crepatura quasi fosse stato un disegno realizzato ad arte con il pennello, dove si dà importanza ad ogni singola sfumatura, ma riguardandolo ne avevo perso completamente il senso; mi appariva vuoto come l’intelaiatura della porta dove avevo impresso le mie nocche, non riuscendo nemmeno più a rammentare il motivo per cui mi ero espresso con tanta ira. Mi appariva spropositato nella sua violenza, quasi una caricatura che delineava perfettamente i contorni del mondo in cui ero cresciuto, abituato a percepire la vita solamente come un susseguirsi ininterrotto di obiettivi da raggiungere ad ogni costo, pianificati nei minimi dettagli anche nel lunghissimo periodo. Una cosa inconcepibile ad oggi, che avrei fatto fatica a comprendere se non avessi cambiato vita e poi non fossi stato catapultato con la memoria a quei giorni, ma che ora mi appariva l’espressione di una nemmeno tanto lucida follia collettiva. Forse non ero mai stato predisposto per quella vita, mia moglie a modo suo me lo faceva notare di continuo, non c’era mai nulla che le andasse bene, e quello che a me appariva come un particolare trascurabile diveniva argomento di dibattito per intere serate, che talvolta assumevano l’aspetto di vere e proprie tragedie. Pretesti per litigare, sostenevo io, ma forse viaggiavamo semplicemente su corsie diverse, solo ora ammetto di non aver mai compreso con chi avevo deciso di condividere la mia vita, come non capii subito perché avesse tenuto la porta conciata in quel modo, lei che tanto ambiva alla perfezione, soprattutto in casa e tutto ciò che ne riguardava. Mi calai con la memoria più in profondità, ricordando sprazzi di quella realtà dimenticata che riaffiorava a ritmo sempre più veloce, come se ogni frammento fosse collegato ad altri, e nel riviverlo li trascinasse a cascata alla mia attenzione, senza una mia richiesta diretta, in un revival apparentemente sconnesso e senza fine. A fatica cercai di ritrarmi, pervaso da un crescente stato di panico; arrancai in cerca di ossigeno e corsi fuori ad una velocità mai raggiunta prima, ma ancora non bastava: sentivo l’alito gelido del passato rincorrermi e lentamente raggiungermi, con l’intento di congelarmi per sempre assieme ad esso, quando udii fare il mio nome. Era Enrico, uno dei componenti della squadra di raccolta, che allarmato si chiedeva cosa stesse accadendo. Incrociare il suo sguardo proiettato al presente dette fine al mio delirio, ma non gli diedi spiegazioni, quelle vere almeno. Mi limitai a sorridere e a dire la prima cosa che mi passò per la mente “Un serpente…”, commentai, mentre lui dopo un primo gesto di stizza scoppiava a ridere sollevato “Ho sempre avuto paura dei serpenti”, aggiunsi imbarazzato, anche se ho imparato tardi a riconoscerli, completai la frase a bassa voce… forse non era un caso che la prima figura che avevo evocato fosse stata un serpente. Solo il pensiero di quel periodo mi fece rinnovare il senso di repulsione per tutto ciò che era stato, e se qualche volta mi ero trovato a rimpiangere alcuni momenti felici, capii il motivo per cui aveva tenuto la bozza in quella porta, anche se l’aveva spostata nella ben più discreta posizione del passaggio per la cantina, e sebbene ansimante e sudaticcio per l’esperienza che mi aveva fatto rivivere, di quella scelta la ringraziai, perché da quella casa uscii completamente libero dal mio passato, pronto a non ricommettere gli stessi errori, ma soprattutto a non rimpiangere mai nulla delle scelte fatte. Non la rividi mai, forse era morta, forse aveva tentato di scappare chissà dove, questa non era certo la sua epoca, come la precedente non era mai stata la mia, un po’ per ciascuno, pensai divertito, anche se in cuor mio avrei voluto saperla al sicuro in qualche posto, qualsiasi esso fosse stato.

 Se fino a quel giorno avevo ripetuto per emulazione i meriti della caduta del sistema consumista, dopo quell’esperienza non nutrivo più alcun dubbio. Si erano valicati i limiti del buon senso, entrando in una spirale dove le esigenze del singolo erano divenute dei veri e propri ostacoli per il corretto funzionamento della macchina economica, che negli ultimi anni esigeva nulla più che la perfezione in ogni suo comparto. Da quella equazione però si era tralasciato il motivo stesso per cui quel sistema esisteva, e cioè la soddisfazione dei fabbisogni dell’uomo, ed allora mi chiedo perché ci sia ancora chi lo rimpiange, quando, insolvente nei suoi compiti, soddisfaceva unicamente se stesso, rivelandosi così del tutto inutile; ma come una bilancia sbatte violentemente sulla sua massima portata, poi torna indietro, così l’organizzazione umana era dovuta retrocedere, senza però fermarsi nel mezzo. Tutto si autoregola secondo la propria natura, sono dei confini indefiniti che si possono sì superare, ma che poi reclamano un risarcimento. Io stesso pensavo che l’uomo fosse riuscito ad elevarsi da quelle regole, alle quali faceva capo anche l’economia, tutti noi ci credevamo ormai sovrannaturali; ma a pensarci bene era come ritenersi immuni alle stesse leggi che non ti permettono di volare o che impongono di doverti nutrire costantemente: pura follia, poiché anche un regime economico è dipendente dalla natura dell’uomo e dalle risorse dell’habitat in cui si trova ad operare.
Di occasioni ne avevamo avute tante; i reali motivi del tracollo sociale che si verificò prima del grande cambiamento erano già stati individuati dai primi movimenti di inizio secolo, che generarono poi innumerevoli altre forme di protesta, ma com’era auspicato nei loro slogan il 99% della popolazione non si mosse mai, giustificati da un conflitto contro gli Asiatici annunciato sempre come imminente, in realtà immobilizzati più per la paura di perdere quei pochi diritti, confusi come privilegi, che il sistema garantiva ancora loro. Briciole, concesse da chi deteneva il controllo del sistema, e che beneficiava dei veri privilegi derivanti da quel potere, talmente grande che avrebbe suscitato l’invidia di qualsiasi Imperatore del passato, con in più il vantaggio, e questi ultimi avrebbero fatto fatica a comprendere, di essere svincolati da ogni responsabilità sociale. Il potere economico e commerciale non dovrebbe mai superare quello politico ed influenzare, se non imporre, le sorti di interi paesi, e nonostante si sapessero già le conseguenze che avrebbe portato il verificarsi di una simile situazione, è quello che si lasciò che accadesse, un po’ per noncuranza della popolazione, molto di più per gli interessi personali dei politicanti. Quando prese coscienza il movimento dei “Liberi Navigatori”, la vite delle privazioni si era stretta tanto da intaccare la libertà di espressione, oltre che a quella dell’informazione, già conquistata da tempo. Io ero piccolo all’epoca e vivevo quelle manifestazioni come la normalità, rincorrendo i sogni di successo che mi erano stati dettati fin dai primi anni di scuola e dipinti come raggiungibili da webTv e siti governativi, in realtà solo uno strascico del periodo di benessere delle generazioni passate, usato come mera propaganda. Solo più tardi compresi le parole che era solito ripetermi mio padre: “Se percorri strade appianate, non potrai che giungere in luoghi già colonizzati”. A me sembrava un bene seguire le orme di chi era arrivato al successo prima di me, veniva naturale, la cosa sbagliata era la palese imitazione, nemmeno a dirlo incoraggiata dall’establishment, poiché tutto ciò che si poteva dire era già stato detto, l’unica cosa sensata da fare era ribadire, e in questo si vedeva la paura di nuove forme di espressione, considerate pericolose perché troppo spesso fuori controllo. Comprendere le loro ragioni non mi fu difficile, anche se non approvo la strategia: quando un sistema nega il ricambio generazionale, non potrà che svilupparsi orizzontalmente, poiché se nei primi decenni di vita di un uomo egli sviluppa nuove idee, negli ultimi non capisce fino in fondo il futuro già alle porte e tenderà a cristallizzare quelle che ormai sono divenute vecchie ideologie. Più difficile per me è stato capire perché mio padre non abbia mai approfondito quel discorso, fermandosi alle sue massime, si esprimeva a massime lui, l’unica risposta che mi son dato negli anni è che avesse paura di procurarmi delle delusioni, ma se ci rifletto bene forse ero io a non volerlo ascoltare fino in fondo. La voce dei propri genitori assume la forma di un rumore di sottofondo arrivati ad una certa età, tutto il resto del mondo sovrasta le loro voci, e solo dopo rientrano in un campo uditivo comprensibile, ma questo non vuol dire che la mia sorte si sarebbe manifestata in maniera diversa.
Anche il Re si era trovato invischiato nel tentativo, a modo suo, di adeguarsi al vecchio sistema, e ciò mi conforta. Lo ricordo nei primi anni, dopo che fece la sua comparsa nel quartiere, legato alla vita da spesse catene e innumerevoli corde a formare un groviglio di difficile soluzione, che lo ostacolavano persino nel camminare, il tutto solo per evidenziare la proprietà di un vecchio e malridotto carrellino arrugginito, contenitore di tutti i suoi possedimenti. Tutti rimanevano colpiti da quell’insolita figura in perenne tribolazione, emblema di una sofferenza d’altri tempi, inconcepibile anche fra i senza tetto; scuoteva gli animi, soprattutto quando rifiutava ciò che gli veniva offerto, perché semplicemente in quel momento non gli serviva niente, dando un ulteriore schiaffo alla sensibilità di chi si proponeva di aiutarlo e voleva mettersi il cuore in pace al costo di pochi spiccioli per ciò che suo malgrado aveva visto. Io non mi sarei fatto fregare, mi ripetevo, vi erano schiere di furbetti per le strade che si fingevano ciechi, sordi, zoppi, ma che poi li vedevi sfrecciare nelle vie secondarie e semideserte per raggiungere il loro luogo di “lavoro”; lui aveva solo trovato una formula nuova, e funzionava molto bene. Poi per caso, una notte gelida, lo vidi dormire malamente sopra al suo carrello, comunemente usato dalle vecchiette per la spesa quotidiana, a sua protezione, disteso a lato di una strada, di fronte all’ingresso sbarrato di un ben più accogliente parco cittadino, probabilmente in attesa della sua apertura per usufruire dell’acqua della fontana. Solo un’ipotesi, ma era l’unica fonte accessibile della zona, pensai, e se fosse vero o meno, me ne rendo conto ora, la cosa più rilevante fu che mi ero già immedesimato in lui, pur non capendo le sue scelte, l’unica cosa certa è che quella notte dormii molto male. Trolly veniva comunemente chiamato, apparendo persino sul trafiletto “curiosità” del giornale cittadino, che lo marchiò con quel nome, denigrando la sindrome di possesso che dimostrava legando il suo corpo a quell’oggetto: un atto giustificato solamente se al suo interno vi fosse contenuto qualcosa di prezioso, altrimenti una vaga e volgare imitazione rispetto alla sindrome da cui eravamo affetti tutti noi, cittadini regolari e regolari possessori di beni di prima qualità.
In quel nomignolo però, che io stesso al tempo trovai azzeccato e divertente, non vi era compresa la genialità che Trolly mi dimostrò più di qualche volta: dare nuova vita agli oggetti. Era un maestro nel riutilizzare qualsiasi cosa gli capitasse fra le mani, riusciva ad immaginarla come un vero e proprio strumento piuttosto che un semplice prodotto ad uso specifico, uscendo dallo schema con cui era stata creata. Era sempre stata la sua più grande qualità, di cui mi rendo conto essere completamente sprovvisto, dato che trovo difficoltà solo nel tentare a descriverne qualche esempio. Sono le cose più semplici che mi colpirono maggiormente quando fui accolto al campo, come le bottiglie in plastica, di cui possediamo una quantità pressoché illimitata, utilizzate da raccordi idraulici o, aperte a ventaglio, come convogliatori di acqua piovana; poi te ne fai l’abitudine e non ci fai più nemmeno caso, soprattutto se non fa parte delle tue mansioni, ma sono convinto che questi piccoli particolari contribuirono non poco a trasformare quello che quando arrivai sembrava essere più un bivacco di disperati dalla grande ed organizzata tribù di adesso. La cosa che apprezzai di più fu l’allestimento degli alloggi, soprattutto il pratico divano-letto ribaltabile ricavato dai sedili posteri delle vecchie e dismesse automobili. Non c’é nulla che vada buttato delle auto, un po’ come si faceva una volta con i maiali, e non avrei dovuto sorprendermi quando vidi che la postazione comunicazioni era stata ricavata dal cruscotto di una di esse, trapiantato in blocco all’interno della “casa degli ombrelli”, com’era stata ribattezzata, con tutta la metà anteriore del mezzo. Mi aveva sempre incuriosito quella casa, più una baracca allargata, la cui struttura portante un tempo rappresentava un box auto; era situata sul promontorio al centro del villaggio, e sul tetto spuntavano decine di ombrelli “spelacchiati” e non solo, ma erano le uniche figure che riuscivo a distinguere chiaramente in mezzo a quel groviglio di rottami rivolti al cielo. Quando ebbi il privilegio di entrarvi capii di cosa si trattava, e non potei trattenermi dal sogghignare ripensando al giorno che Tamba si era presentato fradicio davanti alla mia rivendita, sotto una pioggia battente richiedendo un ombrello. Se c’è una cosa che non avevi bisogno di comprare possedendo un negozio erano proprio gli ombrelli, c’era sempre qualcuno che se li dimenticava all’ingresso, ed anche con le migliori intenzioni di restituirli, rare erano le volte che si riusciva a risalire ai proprietari. Gliene dai uno, ma il giorno dopo si ripresentò facendo la medesima richiesta, sotto una pioggia ormai incessante, sprovvisto di quello che gli avevo dato ventiquattro ore prima. Rifiutai, se non altro per decenza, doveva capire che le cose andavano preservate, pensai; allora la sua richiesta tramutò, come la sua espressione, che divenne fin troppo innocente “Batteria, macchina”, disse lasciandomi interdetto, io non collegai le due cose, come potevo.
“TV! Batteria macchina!”, aggiunse quando vide il mio volto dubbioso. A nulla valse spiegargli che non potevo procurargli quell’oggetto, perché continuò a richiedermelo ogni giorno, non so per quanto tempo, finché non si arrese, o forse fino a quando non riuscì a procurarselo da qualche altra parte. Quando hai un’idea e sai di essere in grado di portarla a compimento, non esiste persona al mondo che possa ostacolarti, e guardandolo mentre distribuiva a tutti noi gli attrezzi per l’imminente battaglia, all’ingresso di quello che un tempo era un palazzetto dello sport, ora adibito ad armeria, lo vidi completamente realizzato. Questo era il mondo in cui voleva vivere, se lo era creato partendo letteralmente dal nulla, ma mentre aspettavo il mio turno mi venne la curiosità di sapere se a quel tempo fosse riuscito a mettere insieme il suo impianto TV di fortuna; un semplice dubbio che maturò fino a diventare la domanda della vita, l’unica a cui vorrei una risposta anche in punto di morte. Mai come oggi questa affermazione potrebbe essere più azzeccata, perché da qualche ora sul promontorio della Grande Antenna si era accesa una luce, e questo poteva significare solo una cosa. Era stata inviata subito una pattuglia a controllare, ma di essa, come di molte altre squadre dislocate sul territorio, non avevamo ancora alcuna notizia. Il Diavolo, il nemico giurato di Tamba era tornato per rivendicare il suo orgoglio ferito, e nei mesi che erano trascorsi senza avere sue notizie, era facile che avesse preparato e fatto crescere il proprio gruppo in previsione di questo giorno.
Io avevo in mente solo la mia domanda, forse l’ultimo strascico di un senso di colpa dettato dalla vita precedente, perché di tutto il resto non rimpiango nulla, ma di essere stato un ostacolo per lui, questo mi pesa ancora. Arrivò il mio turno, fu Tamba stesso ad equipaggiarmi, lo guardai negli occhi, mi sorrise al suo solito modo, e mi consegnò un corpetto e varie protezioni, compreso un casco da football, pezzi che andavano a formare una vera e propria armatura dei nostri giorni. Mi vestii in fretta, pensando a come risolvere in modo rapido e preciso il mio dilemma, ma più ci pensavo e più mi venivano frasi troppo costruite, che avrebbero generato null’altro che incomprensione. Quando ebbi finito mi consegnò un’alabarda, costituita da una mazza da hockey e la lama ben fissata di un pattino da ghiaccio, un grande onore data la rarità di tale arma, ed esitai per un momento a prelevarla, senza riuscire a dire una sola parola, non tanto per quello che mi passava per la mente, ma perché ero stato spiazzato da quella scelta, convinto di ricevere una delle classiche mazze da baseball destinate all’esercito ordinario.
“Prendi”, mi disse agitando l’alabarda, ed allora l’impugnai, desistendo dal chiedergli quella che era divenuta una stupida reminiscenza di un passato ormai sepolto, troppo lontano per evocarlo in un momento così importante. Varcai l’ingresso per giungere al cuore del palazzetto pullulante di persone, e alzai l’arma con entrambe le braccia urlando “Per Re Tamba!”
Gli spalti si animarono e prese corpo un rullio sempre più forte, provocato dal battere dei piedi del nostro piccolo ma coeso esercito, e quando il ritmo di tutti si assestò in un’unica marcia arrivò a tremare persino il soffitto, facendo vacillare la fievole luce che entrava dai finestroni laterali posti sopra le tribune. Il coro tramutò piano da quella che era stata la mia impostazione iniziale ad una sola parola che inneggiava al nome del Re, ed anche la luna sembrò essere attratta da quell’unica voce, apparendo nel cielo dopo anni di assenza, pur se ancora coperta da una rarefatta coltre di nubi, come l’occhio divino che chiuso per lungo tempo si destava per assistere e partecipare a modo suo all’imminente grande battaglia che, ne eravamo convinti, avrebbe sancito l’epilogo del genere umano. Noi non sapevamo a quale fazione appartenessimo, schiere di santoni erano d’accordo nel dire che fossimo in quella giusta, e mentre percorrevo l’ultimo tratto obbligato venendo benedetto in molteplici lingue e in modi fino ad oggi sconosciuti, maturava in me la certezza che quella fosse veramente l’ultima battaglia. L’armageddon, la fine di tutte le cose terrene, e noi qui, protagonisti dello scontro decisivo fra bene e male, tanto decantato in molte religioni, oggi riunite e concordi nel testimoniare il compimento della profezia più attesa e temuta, ma non da noi. Ci consideriamo dei privilegiati, lo vedo chiaramente nelle espressioni di tutti i presenti. Abbiamo superato innumerevoli prove, ci siamo lasciati dietro amici e parenti indegni o forse solo troppo deboli per arrivare dove noi siamo arrivati, e non vi sono le condizioni per arrendersi proprio adesso. Non so se quando sarà tutto finito sarò ancora qui per portare a termine questa testimonianza, ma alla luce delle ultime convinzioni mi sto seriamente chiedendo che senso ha scrivere delle memorie se a prescindere dall’esito dello scontro poi tutto avrà termine, ma a combattere, potete giurarci, ci vado con il sorriso sulle labbra.

 

PrecedenteSuccessivo